Elisa Murgese - blogger e giornalista - ci ha chiesto di rilasciarle quest'intervista, uscita in sintesi su Ilfattoquotidiano.it a ridosso del 25 aprile. La ringraziamo per averci concesso di pubblicarla integralmente sul nostro blog.
Come è nata l'idea di scrivere questo libro?
L’idea ci è venuta circa due anni
fa, quando abbiamo realizzato che il 2015 avrebbe visto la concomitanza di EXPO
con le celebrazioni del Settantesimo della Liberazione nazionale. Un po’ perché
da anni studiosa di cultura dell’alimentazione, un po’ perché donna, cittadina
e insegnante attenta ai valori della Resistenza, Lorena ha realizzato che
nessuno aveva mai parlato della guerra civile del ’43-‘45 in questi termini e
che sarebbe stat
http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/emurgese/ptype/articoli/a una buona idea sfruttare l’attenzione mediatica che oggi si
riversa sul cibo per veicolare una conoscenza storica profonda. Di rimando,
questa inusuale prospettiva avrebbe dato origine a un nuovo modo di raccontare
la storia: un taglio più immediato, diretto, comprensibile a tutti e non
riservato agli addetti ai lavori. Elisabetta, specializzata in storia di genere
e politiche per le pari opportunità, ha colto subito le potenzialità di questo
inconsueto approccio, anche perché – per dirla in termini antropologici e
sociologici – le donne sono da sempre legate alla sfera domestica e alimentare.
In ogni cultura, infatti, sono e sono state relegate alla sfera dell’interno,
della gestione delle risorse edibili e della loro manipolazione e
distribuzione. Mutatis mutandis, ancora oggi è così nel nostro paese.
Quando è stato pubblicato il vostro libro?
Il nostro libro è uscito il 25 luglio
2015 ed è stata per noi un’emozione unica poterlo presentare in anteprima
nazionale a Casa Cervi: il podere ubicato nei pressi di Gattatico (RE), che fu l’abitazione
della famiglia dei sette fratelli martiri del fascismo e che ora è divenuto un
importante Istituto Storico e Culturale. Oltre ad essere altamente simbolico il
luogo, lo è anche la data: si tratta della notte del Gran Consiglio che ha
segnato la fine del Ventennio fascista. Ogni estate qui si ricorda ancora la
caduta del regime, avvenuta appunto il 25 luglio 1943, con un’enorme
“pastasciuttata” offerta gratuitamente a tutti: ci si siede a tavola insieme,
gustando lo stesso cibo, costituendo un enorme banchetto accomunato dagli
ideali antifascisti e dalla consapevolezza di dover ancora difendere questi
valori. L’evento è diventato ormai virale e viene ripetuto in decine di piazze
italiane.
Nel capitolo
introduttivo del volume si racconta, appunto, dei 380 chili di pasta al burro
offerti dalla famiglia Cervi per festeggiare la caduta del regime, di che
evento si tratta?
Ciò che accade oggi ai Campi
Rossi di Gattatico (RE) è straordinario, ma ancora più straordinario fu quello
che fecero i Cervi nel ’43: in un momento di fame e di miseria nera riuscirono
a mobilitare i contadini, le massaie e i casari della zona e, con la
collaborazione e la partecipazione di tutti, portarono in piazza 380 kg di
maccheroni al burro. Un lusso, un piacere da tempo dimenticato, un
festeggiamento unico in Italia. I Cervi accolsero alla loro tavola anche i
carabinieri, offersero a chiunque si presentasse con un piatto (o una
zuppiera!) pastasciutta a volontà e, mangiando insieme, celebrarono “il più bel
funerale che si potesse fare al fascismo”. I Cervi sono stati per noi i primi
“Partigiani a tavola”.
Il vostro libro vuole dipingere i partigiani come gente comune, oppure
ridare ai partigiani la loro umanità, al di là di ogni eroismo?
Il primo obiettivo di questo
libro è stato quello di compiere un’operazione antiretorica, restituendo un
corpo alle donne e agli uomini, ai ragazzi e alle ragazze che hanno combattuto,
partecipato, agito durante la guerra di liberazione nazionale. Il corpo è,
infatti, il grande rimosso nella storiografia resistenziale e ciò accade
proprio mentre la contemporaneità occidentale esalta e stilizza un corpo
perfetto, scolpito, eternamente giovane. Dunque ci siamo riproposte di calare
la storia di quel biennio, cruciale per il nostro Paese, in una dimensione
fisiologica, corporea, quotidiana e relazionale. Abbiamo scelto di tornare al
corpo, considerandolo nelle sue urgenze primarie e restituendogli valore come
parte integrante, se non basilare, della lotta per la Liberazione. Per farlo
abbiamo deciso di portare il focus della nostra ricerca su uno dei bisogni
primari degli esseri viventi: quello del nutrirsi.
Qual è il vostro lettore ideale?
La nostra inusitata chiave di
lettura non ha rivelato una sorprendente efficacia nel restituirci tutta la
complessità della Resistenza, con le sue luci e le sue ombre, con le
contraddizioni e i chiaroscuri che sappiamo, ma anche di essere immediatamente
comprensibile a tutti, in particolare alle nuove generazioni così attente alle
“questioni da foodies” che spopolano
nei media. Abbiamo fatto leggere in bozza “Partigiani a tavola” a una giovane
amica, Giada Faranna (quindicenne), appunto per accertarci che il linguaggio
fosse alla portata dei ragazzi e abbiamo portato con successo il racconto della
Resistenza in alcune scuole, grazie a questa inusuale prospettiva. Pare che ci
abbiano capito e che il messaggio sia passato, lasciando piacevolmente stupiti
perfino i professori.
Avete raccolto testimonianze? Di che tipo?
Il nostro non è un saggio
storiografico, scritto secondo i crismi dell’accademia, ma un racconto a più
voci di come il cibo fosse presente nelle richieste e nelle esigenze della
popolazione, di come sia interessante indagare i periodi storici adottando
questo punto di vista – taglio con cui abbiamo voluto impostare un blog,
anch’esso scritto a due mani: ciboestoria.blogspot.it – di quanto con esso si
possano conoscere a fondo periodi o vicende anche complesse come la guerra
civile in Italia. Per farlo, poi, abbiamo usato delle fonti anomale: la
letteratura resistenziale e il racconto dei testimoni, in forma di interviste o
di diari, perché pensiamo che la narrazione permetta di comprendere
dall’interno, in misura profonda e con autenticità, ciò che è accaduto in quel
biennio così convulso e drammatico; di arrivare alla verità, superando la sedicente
oggettività storica.
Com'è organizzato il volume? (intendo che spazio date alle ricette, e
quando alla narrazione)? Quali sono
i temi toccati dalla narrazione?
Avendo due formazioni complementari,
ma diverse, e due stili di ricerca simili, ma non sovrapponibili, abbiamo
deciso di strutturare il libro procedendo per capitoli appaiati. Dopo aver
enucleato i temi che ci sembrava fondamentale affrontare – come si ponevano i
nazifascisti rispetto al cibo? Qual era il ruolo delle donne? Com’erano le
pratiche alimentari in brigata? I bambini, come vedevano quegli strani ragazzi
che ogni tanto arrivavano a chiedere pane e vivevano in montagna? C’erano
differenze tra città e campagna? Che futuro sognavano i partigiani per il loro
affamato Paese? – li abbiamo trattati ognuna dal proprio punto di vista, Lorena
quello antropologico e letterario, Elisabetta quello storico. Abbiamo racchiuso
questo racconto in una cornice storica, che comincia con la pastasciutta dei
Cervi e termina con l’incredibile storia di Teresa Noce.
Un altro aneddoto
interessante riguarda i 35mila bambini nutriti dalle donne emiliane...mi
raccontate anche questa storia?
Si tratta di una straordinaria
storia di accoglienza messa in atto da parte delle famiglie emiliano-romagnole
e, in particolare, dalle donne. Teresa Noce, reduce dai campi di
concentramento, ispirata dalle lasagne che aveva tanto spesso sognato nel
lager, mette in piedi un progetto visionario che riguarda migliaia di bambini
denutriti provenienti da tutt’Italia (Milano, Cassino, Napoli…). Una storia che
restituisce pienamente il senso di cosa fu la lotta di Liberazione, una storia
da cui esce un’Italia nutrita, unita, fiduciosa di poter cambiare. Una storia
che ci dà la direzione in cui muoverci anche oggi, quando vediamo le scene dei
profughi in fuga a cui il TG ci ha ormai abituato. Da essa abbiamo tratto
ispirazione per la ricetta delle “Lasagne per la ricostruzione” nel ricettario
posto in appendice, ma, per conoscerla meglio, vi rimandiamo alla lettura del
libro.
Come avete recuperato le ricette?
Il ricettario da un lato
comprende la raccolta di piatti tradizionali delle zone in cui fu più attiva la
Resistenza – piatti di quella cucina povera che ora è il vanto della cultura
gastronomica italiana, ma a cui i ceti subalterni sono sempre stati condannati:
polenta, castagne, legumi, minestre… - dall’altro vede l’introduzione di
ricette più contemporanee con cui ci siamo permesse di giocare, ricostruendo
nel piatto le atmosfere e i sapori che costellano il nostro libro. Ad esempio
il Dolce della Liberazione ha gli aromi del tabacco, del cioccolato e del
whisky, ingredienti che evocano immediatamente l’arrivo degli americani e dei
loro enormi carri armati. Vogliamo chiarire che il tono ironico e dissacrante
del ricettario non vuole essere offensivo, al contrario. Ci sono diverse
testimonianze, nel libro, da cui appare la capacità dei protagonisti di ridere
delle loro condizioni tragiche, della loro vita sempre a rischio, perfino della
fame nera che li perseguitava.
Ci volere dare qualche nome di queste ricette (almeno 4 o 5) e potete
darmene almeno una da inserire nella narrazione dell'articolo?
I titoli delle ricette sono
ironici e allusivi, dagli antipasti ai dolci. Apriamo con l’Antipasto in
marcia, che altro non è se non pane e salame, merenda tipica dei combattenti
perché facile da mangiare mentre si cammina. Poi ci sono i Cappelletti
Bastonati, che abbiamo denominato così perché durante il Ventennio gli
squadristi facevano irruzione nelle case dei socialisti e sferravano bastonate
a chi celebrava, gustandone un piatto, il Primo Maggio. Come secondo nominiamo
le Uova alla Enne2, normali uova alla milanese, ispirate al protagonista del
romanzo di Vittorini che consuma solo due uova dopo giorni di attività
frenetica alla guida di un Gap. C’è anche l’insalata delle bande liguri, come
contorno e, per finire, la torta Okébon, che deve il nome ad uno dei tanti
preparati e surrogati con cui gli italiani presero contatto durante la guerra.
Come mangiavano i partigiani?
Non si può dire che i partigiani,
in assoluto, non mangiassero. Certo la fame più nera l’hanno vissuta i civili,
nelle città soprattutto, che si vedevano depredate le riserve dai nazifascisti
per l’ammasso e razionati i viveri fino a quantità risibili. Gli antifascisti,
poi, non avevano nemmeno la tessera annonaria. I partigiani invece in qualche
modo il cibo se lo procuravano: o portando a segno colpi all’ammasso o
intessendo rapporti di reciprocità con le popolazioni locali o raccogliendo
frutta spontanea nei boschi o requisendo derrate in cambio di buoni che poi, al
termine del conflitto, sarebbero stati ripagati. Un altro modo di procurarsi il
cibo, poi, era attendere gli aviolanci organizzati dagli alleati che, come una
manna moderna, facevano cadere dal cielo alimenti, medicinali e armi. Una cosa
è certa però: i “banditi” mangiavano male e in fretta.
Spesso in tempo di guerra il cibo è sempre lo stesso. Capitava anche ai
nostri partigiani? Cosa inventavano per ovviare al problema?
Un tratto caratteristico
dell’alimentazione partigiana è l’uniformità assillante. Quando si riusciva a
portare a termine un colpo all’ammasso o a requisire camion destinati ai
fascisti, si era poi costretti a consumare quel prodotto per giorni, settimane,
mesi. Il cibo non si poteva certo sprecare e allora i cucinieri si ingegnavano
ad imbandire lo stesso ingrediente in infiniti modi (abbiamo testimonianze sul
consumo ossessivo di pecora, prosciutto, castagne…), sfoggiando una grande
creatività. Che poi è quella che ha sempre caratterizzato la cucina italiana, basata
sugli stessi ingredienti poveri che vengono manipolati in infinite varianti. Ma
ciò spesso non bastava e così i giovani patrioti si scoprivano a immaginare
altri sapori e altre ricette, a ricordare i piatti di casa, fuggendo con la
fantasia dalla monotonia del rancio quotidiano.
Avevano fame? Capitava che condividessero il cibo, tra classi sociali
diverse, magari dallo stesso piatto?
In tempo di guerra tutti avevano
fame. Meneghello, però, nei “Piccoli maestri” la definisce assai
significativamente una fame “allegra”, un vuoto di stomaco lancinante che
veniva riempito da ideali di uguaglianza e di riscatto, dalla chiara percezione
di trovarsi dalla parte giusta. La guerra aveva in qualche modo ridotto a un
livello basico e primordiale le condizioni di vita e così, dividendo il poco
cibo a disposizione con gli altri antifascisti, si andava lentamente costruendo
una società nuova, fatta da uomini e donne, giovani e vecchi, intellettuali e
operai che mangiavano insieme, uno accanto all’altro, alla pari, senza
distinzioni di ceto e di genere. Una cosa inaudita, mai vista prima. Si stavano
fondando su base materiale, intorno all’esigenza di nutrirsi, gli ideali per il
futuro. Da quell’esperienza, vissuta letteralmente nelle viscere, usciranno i
padri e le madri costituenti, usciranno i cittadini di un’Italia rinnovata e
fiera.
Altro aspetto
interessante, infatti, è il valore politico del sedere alla stessa tavola, e
l'etimologia del termine compagno...
Infatti la parola “compagno” è
fondamentale nel nostro lavoro: in essa si esprime pienamente il valore
socializzante della condivisione del cibo. Mangiare insieme crea un legame
indissolubile. Dare cibo a chi lo chiede è un gesto di pregnanza etica
fondamentale. È indice della volontà di esprimere la propria umanità con un
gesto immediato, universale, comprensibile al di là delle distinzioni
culturali. Le recenti immagini dell’isola di Lesbo o di Idomeni possono
rappresentare bene quello che stiamo dicendo, portandolo all’oggi. C’è una
divaricazione netta tra chi pensa che da proteggere siano le frontiere e chi,
invece, pensa che siano da proteggere ed accogliere gli esseri umani,
condividendo con loro ciò che sentiamo come “nostro” di diritto.
E le partigiane, rifiutavano il ruolo di cuoche?
La partecipazione delle donne
alla Resistenza ha assunto molte forme e diverse misure. Dunque bisogna
distinguere tra chi ha scelto di aiutare stando nella propria casa – e allora
parliamo di staffette, di case sicure per i renitenti, di accoglienza degli
sbandati e degli sfollati, del semplice dono di un pezzo di pane – e chi,
soprattutto in giovane età, ha deciso di partecipare prendendo le armi. Queste
ragazze, una volta salite in montagna, spesso si sono rifiutate di cucinare per
i compagni, per non aderire ancora una volta al ruolo e allo stereotipo della
donna in cucina. Cresciute immerse nell’ideologia fascista, queste donne sono
state delle autentiche rivoluzionarie: lì, per la prima volta, hanno mangiato
accanto agli uomini, alla pari, senza distinzioni. Hanno assaporato una società
radicalmente diversa, su cui poi hanno basato le rivendicazioni del dopoguerra
e dei decenni a venire, rimanendo purtroppo disattese e deluse nelle loro
aspettative.
Qual è il messaggio
dell'introduzione di Capossela?
Vinicio ci ha regalato tre pagine di una densità
straordinaria, lo ha fatto perché ha compreso da subito il senso del nostro
lavoro. Come egli stesso ha precisato, il cibo è sempre stato usato come merce
di scambio in una logica ricattatoria o per umiliare e sottomettere i popoli.
Ma non solo, attraverso il cibo si può mettere in atto quotidianamente una
scelta: da che parte stare, che ideali seguire, con chi condividere qualcosa, assumendocene
la responsabilità. Sempre più consumatori, oggi, cominciano ad esserne
consapevoli.
Che lavoro fate? Vi lega amicizia o collaborazione di lavoro?
Eravamo già amiche quando è nata
l’idea di scrivere “Partigiani a tavola”, ma il progetto di questo libro ha
contribuito a risaldare il nostro rapporto e ad arricchirlo. Ci ha regalato
esperienze indimenticabili e irripetibili, ci ha fornito il pretesto per
conoscere persone fuori dall’ordinario. Ci ha donato una ricchezza, in termini
di umanità e di relazioni, inestimabile. Per il resto, siamo entrambe plurititolate
e dottoresse di ricerca e, parlando con le persone che partecipano alle
presentazioni del nostro libro, ci sta venendo perfino il dubbio di essere
brave in ciò che facciamo. Eppure il sistema culturale (e accademico) del nostro
paese pare respingerci ai margini: dunque siamo e rimarremo delle outsider,
delle ricercatrici indipendenti che si occupano con passione e competenza di
temi “caldi”, come quest’ultimo, pur dovendo fare – per portare a casa la
pagnotta – mestieri lontani dalle nostre aree di interesse. Lorena è maestra in
anno di prova ed Elisabetta è commessa in un negozio di abbigliamento. Il
vantaggio è che godiamo di una impagabile libertà, non dobbiamo dimostrare
nulla a nessuno, né tanto meno render conto delle nostre scelte, se non
all’editore Fausto Lupetti (che ringraziamo sempre per averci dato fiducia) e
ai lettori. Siamo libere di occuparci di ciò che ci interessa e le persone che
incontriamo sembrano essersene accorti prima degli addetti ai lavori, dandoci enormi
soddisfazioni. Dobbiamo però ringraziare i nostri compagni e i nostri figli,
che hanno pazientemente tollerato le molteplici “assenze” di questi anni,
regalandoci il tempo che, per forza di cose, abbiamo dovuto sottrarre a loro.
Ho letto che tu Lorena sei insegnante, e che in un'intervista lamentavi
che i giovani non sanno molto del nostro passato, ignorano perché si stia a
casa da scuola il 25 aprile. Confermi? Il volume è fatto anche per avvicinare
al periodo della resistenza un pubblico più giovane?
In questi lunghi anni di
precariato abbiamo avuto modo di entrare in contatto, in modalità formative
diverse, con bambini e ragazzi di ogni ordine di scuola e la percezione, va
detto, non è delle migliori. Non mi soffermo sul triste destino dell’educazione
civica (oggi educazione alla cittadinanza) nelle scuole. Per il resto, pare che
gli studenti riproducano gesti obbligati, imposti dall’alto, senza rendersi
conto del loro reale significato: ad esempio penso alla “Giornata della
memoria” o ai “minuti di silenzio” che purtroppo ultimamente si sono ripetuti
in molte occasioni e penso, anche, al 25 aprile, Festa Nazionale ormai ridotta
a un giorno di vacanza in più. La responsabilità di questo è ancora una volta
da condividere tra insegnanti e genitori, che percepiscono la Festa della
Liberazione Nazionale come una giornata di propaganda politica o come una presa
di parte ideologica, e non come una Festa che riunifica al di là delle
differenze, che ribadisce e celebra i valori fondanti dello stato democratico e
repubblicano, un evento da cui è scaturita la Costituzione. Una giornata
fondamentale per la coscienza civica di ognuno di noi. Basti pensare che nella
nostra città, Parma, sta aprendo una seconda sede di Casa Pound
nell’indifferenza generale e che, nel paesino di cinquemila abitanti di una di
noi, un commerciante ha deciso di esporre nel proprio esercizio il calendario
del Duce. Solo pochi ne hanno provato sdegno. Non c’è bisogno di scomodare
Pavese o Eco per comprendere la pericolosa direzione che stiamo prendendo.
Dopo avere scritto
questo libro, cosa avete imparato di nuovo sul cibo?
Brecht ha scritto che prima viene
lo stomaco, e poi la morale. Noi potremmo dire che nella storia che abbiamo
raccontato prima è venuta l’urgenza di mangiare e poi le ideologie. Questa è la
prima cosa. Un’altra ce l’ha insegnata il soprano Gabriella Corsaro. Il nostro
libro tratta di vicende per lo più collocabili al di sopra della Linea Gotica,
eppure Gabriella, originaria dell’Aspromonte, ci ha confessato che per la prima
volta, leggendo “Partigiani a tavola”, è riuscita a calarsi pienamente
nell’atmosfera di quel periodo, a tornare in contatto con le parole dei suoi
nonni, pur avendo a che fare con una storia in apparenza molto lontana da
quella del Nord Italia. Il cibo, dunque, ha travalicato la distinzione tra Nord
e Sud, ha saputo unire un’Italia che era lacerata. Un’ultima cosa abbiamo
imparato: non è vero che per far cultura bisogna fare sfoggio di conoscenze e
di parole astruse. Noi abbiamo seguito la logica del “parla come mangi” e le
persone ci hanno capito, molte ci hanno donato la loro amicizia, gli studenti
ci hanno prestato attenzione lasciando stupiti i loro stessi insegnanti. Quasi
ovunque siamo state, ci hanno raccontato aneddoti stupendi, che probabilmente
confluiranno nel blog. Dunque è vero: il cibo salda le relazioni, rafforza le
comunità e il senso di appartenenza, va oltre le differenze e le generazioni.
L’unica risposta che ci può accomunare, nella complessità dell’oggi, è il
ritorno ai gesti semplici e umani. Magari, perché no, intorno a una tavola.